Introduzione a "Partigiani senza Patria".

Vengono proposti qui due scritti, di due autori diversi: un padre e il figlio. Vi si traccia il percorso di un uomo e poi della sua famiglia, attraverso le vicende del secondo dopoguerra. Augusto Marini, il padre, è un uomo cresciuto nella estraneità più radicale, in una endemica situazione marginale, in un’infanzia difficile, dove i bisogni del bambino per forza di cose vengono subordinati alle necessità più elementari della sopravvivenza del basso ceto contadino veneto, risucchiato dalle dinamiche della civiltà urbana; dove i genitori si pongono quale paradigma del contrasto dell’esistenza stessa, come riduzione esistentiva della polarità morale. Augusto potrebbe venirne sopraffatto, trasformandosi in un essere che si rifugia nella facoltà animale di adattamento. E invece no, egli, per quelle evenienze imponderabili che in un’esistenza suscitano il senso di opposizione al sopruso, si forma in quella violenza, si irrobustisce. Eccolo allora prima antifascista istintivo, poi partigiano. Ma anche qui, non seguendo un calcolo politico, e nemmeno accreditandosi una certa fedeltà patriottica. No, perché Augusto entra nelle file dei partigiani sloveni della Benecia, in quelle combattive formazioni che debilitarono pesantemente il controllo di quella zona, da parte di tedeschi e fascisti. Poi Augusto viene fatto prigioniero. Viene pestato fino allo stremo al fine di ottenere informazioni, ma - come si poteva ben prevedere da quanto scritto finora – non apre bocca. Poi partecipa in prima linea alla liberazione di Venezia.

Da questo punto, seguono le vicende raccolte in questo libro. Nel dopoguerra le delusioni sono tante. I compromessi pesano ad Augusto, che quindi decide di emigrare, di abbandonare l’Italia, dove l’onda liberatrice si era fermata quasi subito. Va in Jugoslavia, o meglio, in Slovenia. Viene accolto con entusiasmo, così com’era accaduto tra le fila partigiane. Ma anche lì si manifestano – anche se non subito – i problemi di conciliare una macchina statale pressata dalla necessità della ripresa economica, da un isolamento politico-economico stritolante, con i bisogni quotidiani dell’uomo.

E qui c’è il passaggio di testimone. A raccontare ora è il figlio Luciano. Se il cambio di voce narrante è evidente da un punto di vista espressivo, esso si presenta al contempo nella levità propria del rapporto di affettivo: perché è il figlio a parlare, il quale, per di più, riporta quanto il padre a sua volta gli ha raccontato. Augusto – anche se dopo diversi anni - se ne va, torna in Italia, portandosi dietro il regalo più bello della sua esperienza slovena, una famiglia. Ma in Italia rimane ben poco. La situazione economica molto precaria lo costringe ad emigrare, ancora. Dopo essere stato sballottato per vari campi profughi, approda in Danimarca.

Sono vicende poco note, epopee di “gente minore”, tale perché senza peso politico. Ma proprio questo essere “altro” - “gente minore”, appunto - porta con sé una certa leggerezza, una libertà di giudizio, se vogliamo una snobberie, impensabili alla descrizione di sistema, alla storiografia consolidata dai criteri di correttezza accademica, disciplinare. Per tutto questo sì è deciso di non intervenite in alcun modo sul testo, di riportarlo “così com’è”. Nessuno stile precostituito, quindi, ma un rapporto istintivo, libero da regole che non siano quelle di base del linguaggio - anzi, della comunicazione. Sono pagine dense di vita, confuse come confusa è la vita, dove il “non detto” traspare dallo scarto dal modello letterario, dalla diversione del codice, nella tensione verso la materia prima dell’esistenza.

Mauro Caselli

2017